domenica 30 settembre 2012

Una "politica" senza popolo

Firenze  - dal popolo le cattedrali
Alla luce delle ultime vicende accadute alla Regione Lazio, ma non solo, la prima e istintiva speranza è che si sia toccato il fondo da cui cominciare a risalire.  Tuttavia pur scandalizzandomi non mi sorprendo. Ciò che è accaduto e sta accadendo è purtroppo una indiretta conseguenza della "svolta del '92",  una svolta che partendo da una legittima esigenza di moralizzazione ha lasciato aperti molti dubbi . Nel 92 una classe politica è stata azzerata o meglio è stata azzerata e sconfitta. Non entro nel merito di quel periodo ma credo che le conseguenze di quanto accaduto  e che a suo tempo si potevano ipotizzare anche senza molto acume e lungimiranza fossero due, la prima:  la nascita di un processo di rinnovamento non moralistico ma sostanziale non buttando via tutto ma partendo dal buono, che a mio avviso c’era e su questo costruire una classe politica nuova favorendo una reale crescita di nuovi talenti politici che partivano da esperienze culturali e sociali virtuose ripetendo ciò che già nel dopo guerra avvenne, in un clima riconciliatorio e di ricostruzione della fiducia nella politica.

La seconda: un azzeramento incondizionato legato esclusivamente al pregiudizio con successiva occupazione degli spazi lasciati vuoti da parte di avventurieri incompetenti e arrivisti non certo mediamente più onesti degli azzerati, usando come unico criterio "nuovo è bello e onesto per definizione e vecchio è brutto e disonesto per definizione”.

Purtroppo abbiamo percorso la seconda strada, più facile che non richiedeva la dote del discernimento. Eccone i frutti.  Si è scelto di fare a meno di parte importante di una classe politica fatta di amministratori di piccoli e medi comuni che facevano della loro passione e competenza politica la ricchezza sociale dei loro territori e contribuivano a fare crescere giovani leve di amministratori appassionati e competenti che andava di pari passo con la crescita culturale ed intellettuale delle nuove generazioni con il vantaggio di offrire modelli di riferimento veramente virtuosi. Io stesso da giovane ventenne consigliere comunale ho avuto la fortuna di avere dei modelli di amministratori di diversa appartenenza politica: democristiani, socialisti, comunisti, liberali ecc... i quali mi hanno insegnato a capire i bisogni e cercare insieme le risposte, a battermi duramente per degli obbiettivi, a fare dure battaglie politiche tra di noi ma poi giudicare la realtà senza pregiudizio, ad essere capace di tornare sui miei passi con dignità riconosciuta all'avversario e dall'avversario politico. Nessun insulto solo politica con la P maiuscola anche se di provincia. Ci mettevamo del nostro anche economicamente senza chiedere nulla, ci bastava sapere che era giusto e le tradizioni culturali e politiche da cui venivamo ci sostenevano. Ho smesso presto perché sono arrivati i "nuovi" e mi sono guardato bene, lì credo di aver sbagliato, dall'essere di intralcio al nuovo che avanzava dirompente pieno di certezze e di promesse. Ovviamente qualche parte politica si è distinta maggiormente in questo carosello misto di ipocrisia e demagogia facile, ma da tutte le parti il fenomeno si è manifestato in buona misura.  Io che ho sempre creduto che la politica fosse veramente un servizio, lo dico con un po' di pudore, quasi imbarazzo alla luce di ciò che sta accadendo, faccio fatica a spiegare ai mie quattro figli che non è giusto rincorrere giudizi demagogici e populisti ma che valga ancora la pena di credere che si può risalire, anche perché abbiamo veramente toccato il fondo, faccio fatica a indicare a loro una strada. Mi viene però un sussulto di orgoglio, quasi voglia di fare appello a quelli che allora ci credevano e hanno smesso per lasciare il posto a quel "nuovo che avanzava"  e si sono messi da parte, un appello a rimettersi in gioco e a dare speranza ai nostri figli. Ma subito dopo mi viene quasi una sorta di rassegnazione e non riesco a trovare la via di uscita,  ma chi oggi è capace di mettere insieme questa gente? Chi può ricostruire un popolo non rassegnato? Chi è il riferimento per questo desiderio di mettersi in gioco senza ambizioni di successo, di notorietà, senza il solo gusto di emergere e di notorietà?

Anche questo è un servizio alla Chiesa.  Il Card. Bagnasco ci ha detto in questi giorni alcune cose su cui lavorare, anche se, spesso, proprio noi cattolici siamo più avvezzi a seguire le sollecitazioni dei populisti di turno piuttosto che prendere in mano ciò che ci viene dalla Chiesa e fare un serio lavoro come laici autonomi che rendono, nel servire la Chiesa un servizio al proprio paese.  Non meno pericoloso in questi ultimi anni è stato l’atteggiamento della grande finanza  che ha favorito l’arricchimento di pochi speculatori rispetto alla crescita dei popoli. Il presidente della CEI ha detto ai Vescovi e quindi al suo popolo:  ”È vero, in questa stagione sembriamo capitati in un vicolo cieco, costretti a subire la supremazia arbitraria della finanza rispetto alla vitalità civile e culturale o, detto in altro modo, rispetto ad un umanesimo sociale che è la cifra della nostra cultura. Per talune componenti di potere, il Vangelo avrebbe addirittura qualche responsabilità per la situazione in cui si è; e non avrebbe comunque più nulla da dire alla società odierna. Il cristianesimo, in realtà, sa – nella vera coscienza di sé – di essere esperienza non di regresso, ma propulsiva, perché capace di proporre modelli di vita in cui l’esasperazione del consumismo e del liberalismo è bandita, in vista di uno sviluppo comunitario più equilibrato e più garantista rispetto alla dignità di ogni persona. Data la gravità dell’ora, la Chiesa – spinta dalla sollecitudine per la Nazione – fa appello alla responsabilità della società nelle sue diverse articolazioni – istituzioni, realtà politica e della finanza, del lavoro e delle sue rappresentanze – perché prevalga il bene generale su qualunque altro interesse. È necessario stringere i ranghi per amore al Paese…..” .

Da qui credo si debba partire, concretamente ma temo che i “se” e i “ma” prevarranno e noi ci chiameremo ancora una volta fuori. Vorrei non fosse cosi per i nostri figli.

domenica 23 settembre 2012

Quale centuplo?

 

Quale tempo attende i nostri figli? Quale destino avranno? Mi capita spesso di sentire commenti tra amici e conoscenti in merito ai modelli di vita che abbiamo di fronte e che rischiano di essere attraenti per i nostri ragazzi. E spesso questa preoccupazione è legata alle notizie che ci vengono ogni giorno offerte dai media. Quest’allarme spesso nasconde un’implacabile resa. Come se ormai il solo “veicolo” attraverso il quale i nostri figli possono assorbire "modelli" fosse solo il peggio che hanno intorno e che gli viene comunicato dai media: questo o quel politico, questo o quel cantante o attore, o magari il presidente del consiglio. Ognuno di noi può cadere nella tentazione di rassegnarsi a non rischiare. A non prendere su di se, quello che i vescovi hanno chiamato “il rischio educativo”. Tuttavia, credo che la responsabilità che mi è chiesta nell'educazione dei miei figli è appunto una “responsabilità” e non un giudizio moralistico. Una responsabilità che implica tutti gli aspetti della vita e quindi anche quello del giudizio politico e morale. A me sinceramente il comportamento del presidente del consiglio, chiunque esso sia dal punto di vista della sua vita personale e famigliare non interessa, di questo deve rendere conto alla sua coscienza e alla sua moralità, forse mi può infastidire ma non è questo il punto. Ciò che mi interessa è quanto mi attendevo e mi attendo, per me genitore e come famiglia. Sono infatti le mancanze di questo governo e di quelli che lo hanno preceduto che formano il mio giudizio critico e quindi anche le mie scelte elettorali. Questo governo non ha fatto nulla per la politica della famiglia, non ha fatto nulla sulla liberà di educazione sia per coloro che hanno scelto per i propri figli la scuola pubblica sia per quelli che hanno scelto la scuola privata. Il livello della polemica politica degli ultimi tempi non ci ha fatto fare un solo passo verso la soluzione dei problemi che devono affrontare le nostre famiglie nel faticoso compito di crescere ed educare i propri. Domandarsi quale sarà il destino dei nostri figli credo sia il punto da cui partire. Non è certo la preoccupazione per la moralità di Berlusconi, di Casini, di Fini, di Vendola, di Bersani e di tutti i nostri politici che risponde in modo reale a questa domanda. Dobbiamo rispondervi partendo dalla nostra moralità, e non da un moralismo inutile, da una moralità per la nostra vita e quella dei nostri figli che mostri quanto noi siamo appassionati al loro destino attraverso le ragioni che diamo loro per le nostre scelte. Non possiamo abdicare alla nostra responsabilità di rischiare con i nostri ragazzi, siano essi allievi o figli, con l'alibi che la battaglia è persa. Dobbiamo partire da noi dalla speranza che siamo come genitori, per il modo in cui stiamo insieme, è questo che ai nostri figli rimane più di ciò che diciamo. Dobbiamo rischiare nel giudizio sulle cose dandone delle ragioni solo così i nostri figli hanno qualche possibilità di comprendere e di desiderare di essere felici. Il desiderio di felicità non può essere soddisfatto da questo o quel modello ma solo da un "cuore" che cerca uno sguardo che esprime un passione per il proprio destino. Questo sguardo grazie a Dio lo di può ancora trovare negli occhi di molti genitori e di molti insegnanti. Non è lo sguardo di chi non sbaglia mai, non è lo sguardo di chi ha tutte le risposte, è uno sguardo che sa rimandare ad un “Altro” da noi, con tutti i limiti che ognuno ha e sconta in ogni istante ma in ogni istante non si fa determinare da essi.


Potrebbero sembrare distanti dalla realtà queste cose ma la mia esperienza quotidiana mi conforta su come questo modo di affrontare la realtà fà si che i quotidiani errori non siano un limite nei rapporti con i mie figli, con mia moglie con miei collaboratori e colleghi. Solo questo mi fa sperare che ai miei figli (ne ho quattro) rimanga il desiderio di un’autentica felicità. Nel vedere quei giovani a Roma nel giorno della beatificazione di Giovanni Paolo II, nel vedere il loro sguardo che aveva la consapevolezza di appartenere a un popolo, questa speranza è diventata più una certezza. La testimonianza di Giovanni Paolo II è per i nostri figli una grande occasione per guardare alla vita come lo guardava lui, slegato dalle cose ma consapevole della realtà con cui ogni giorno dobbiamo fare i conti. Quel "non abbiate paura spalancate le porte a Cristo" che il nuovo Beato ha detto ai giovani è una sfida a tutti noi affinché anche le nostre porte non siano socchiuse dal tempo e dalla "stanchezza" chi più di lui ci ha dato questa testimonianza di immensa apertura? Questo ci fa fare esperienza concreta del centuplo quaggiù.

Chi se ne cura?





Le recenti vicende politiche potrebbero portare allo sgomento chiunque affidi il proprio destino alle capacità di non sbagliare di chi guida le sorti politiche del nostro o di altri paesi.  Lo sgomento derivante dall’evidente impotenza che, di fronte agli eventi di tutti i giorni, i fatti denunciano amaramente che inevitabilmente tutto ciò che si sente oggi, è smentito o superato domani. La politica degli ultimi anno è stata caratterizzata dall’ascesa dei “capopopolo” e dal loro oblio. Tutto è avvenuto e sta avvenendo sulle ondate emotive e reattive che, pur comprensibili in cui versa l’economia del nostro paese, rischiano di aumentare la confusione e allungare i tempi per, se non risolvere, almeno affrontare i problemi. Insomma dalle stelle alle stalle, dal trionfo al linciaggio.
Ecco cosa è l'uomo se basta a se stesso, un prodotto di consumo da sacrificare agli idoli del momento. Sia esso l'uomo leader, cittadino, elettore, consumatore, dipendente, manager, tecnico, povero, ricco... come se l'uomo debba essere pesato da un attributo, da un aggettivo che ne determina il valore così come qualsiasi prodotto di consumo.  C'è di più: a regolare le dinamiche di relazione tra questi “prodotti” vi è una spaventosa logica “cannibalista”, mors tua vita mea. Ciò avviene nel quotidiano, sui luoghi di lavoro, negli uffici pubblici, negli ospedali, tra i carrelli dei supermercati, dove la prevaricazione diventa sempre più frequente dalle cose più banali alle questioni che condizionano la vita degli individui. Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi? (Salmo 8), da questa domanda del salmo, che chiede ragione dell’essenza prima e ultima dell’uomo, mi viene una domanda un po’ drammatica ma non senza speranza, da padre che ogni giorno deve farsi questa domanda guardando i propri figli, dove è, l’uomo e CHI se ne cura?   Chi si cura di ciò per cui è fatto tutto da chi ha fatto tutto. Come guadiamo i nostri figli?  Per cosa li guadiamo? È inevitabile che loro ci guardino per come li guadiamo noi. È ancora sostenibile una convivenza che mette al centro tutto e di tutto tranne l'uomo? Purtroppo la preoccupazione legittima che esprimiamo per i nostri figli sul loro futuro è figlia di un’ipocrisia di fondo. Non siamo preoccupati del loro destino ma del loro futuro come un’emanazione del nostro successo, quindi al centro non mettiamo il loro ma la nostra idea di loro, il nostro appagamento e la nostra gratificazione.
Se i nostri figli ci guardassero (e guardano) per quello che riusciamo ad accumulare o per il successo che rincorriamo e non per quello che siamo, è perché noi stessi ci guardiamo così, ci stimiamo per questo e stimiamo per questo chi ci sta intorno.
Dobbiamo recuperare la ragione per la quale siamo fatti, desiderare che si compia il nostro destino e quello dei nostri figli. Solo così la convivenza, e lo sguardo che abbiamo sul mondo e sulle cose è centrato sulla risposta a quella domanda: Si so CHI se ne cura ma agisco come se non lo sapessi.